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Se fai queste cose non sei lean


Avrai sentito parlare di lean management come di un metodo per trovare la competitività della tua offerta e della tua impresa in tempi record, alle stesso tempo riducendo gli sprechi di risorse e creando valore per il tuo cliente. Ti avranno spiegato anche come il lean management sia una guida per la sistematizzazione dei processi aziendali laddove non siano stati ben definiti o non producano efficienza.

Il lean management è proprio questo, consiste nell’applicazione dei principi di Lean Thinking e si rifà al Toyota Production System (ma non solo) e, se correttamente interpretato, produce miglioramenti oggettivi di natura sia qualitativa che quantitativa nel management dell’azienda e ti allena a guardare  alle tue risorse e dentro ai tuoi progetti senza preconcetti e condizionamenti, in modo costruttivo e autocritico dove serve.

Il Lean Thinking è un modo di guardare alla propria azienda apprendendo informazioni su di essa allo scopo di migliorare la cultura interna, il mindset, gli strumenti, le metodologie in uso, le policies e le regole generali che ne governano la vita.

I principi posizionali del lean management sono:

  • la ricerca di un miglioramento costante a tutti i livelli dell’azienda
  • la ricerca di valore dell’offerta che parte dalla percezione del cliente esterno
  • la distinzione tra attività che creano valore per il cliente da quelle che portano valore solo all’azienda, allo scopo di efficientare e riallocare risorse aziendali
  • la ricerca di criticità nel modello di business, in particolare in termini di cattivo utilizzo delle risorse e individuazione di opportunità di miglioramento
  • la standardizzazione dei processi attraverso il continuo apprendimento

Nelle strategie di comunicazione il Lean Thinking trova applicazione, ad esempio, nel value proposition design (che supporta anche la ridefinizione del business model) o nella comunicazione della value chain a cui sottende la scomposizione dei processi e massimizzazione dei best values che il value design ci restituisce come quelli maggiormente percepiti dai target (stakeholders, buyer personas).

Sembra tutto semplice? Non lo è nella pratica, se si pensa che portare questa filosofia all’interno della propria impresa implica un cambiamento molto profondo nel modo di pensare ed agire del team ad ogni livello, richiedendo conoscenza delle metodologie di applicazione, allineamento dell’intera organizzazione aziendale su progetti e obiettivi comuni e, come conseguenza, di un nuovo posizionamento che investe molti livelli, costruzione, trasmissione e formazione di un mandato comunicativo univoco e ben strutturato.

Molte aziende oggi si dicono attivamente sulla strada di questo percorso. Se ho un chiaro ricordo di qualche cliente che già ne parlava anni fa come di una metodologia “sperimentale” che l’azienda stava approcciando attraverso giornate di affiancamento con consulenti esterni, che organizzavano in azienda una qualche forma di attività di team building coinvolgente (piú memorabile per le metodologie anche ludiche utilizzate che per l’effettivo contenuto, difficile da trasmettere ad un target stratificato di funzioni aziendali), devo dire che oggi trovo le aziende (quelle che iniziano ad approcciarlo) mature nell’interpretate la reale portata di questo metodo come driver di competitività, anche se rimane un tema di distorsioni nell’interpretazione del metodo, che a volte viene considerato come una soluzione veloce a emergenze da risolvere e quindi scarsamente considerato nella sua completezza ma solo nei princìpi che dovrebbero risultare utili ad abbattere determinati ostacoli o rischi per l’impresa.

A volte le interpretazioni sono cosí parziali da farne travisare completamente il senso profondo.

Anche alcuni colleghi mi hanno confermato come spesso, ad esempio, l’impresa, davanti all’opportunità di avviare un processo approfondito di verifica dei valori percepiti dal target attraverso metodi con i quali il target partecipa alla ricerca (come appunto il value design), si sono sentiti rispondere che “perdere tempo nel fare la strategia non è lean, ma lo è procedere per tentativi fino a capire (da leggere indovinare) cosa il target desidera”. Come? Il metodo più comune consiste nel provare a sottoporre al target delle “campagne fake” e dei “finti messaggi o versione del prodotto ipotetiche” per testare la risposta, ovviamente non in maniera ripetuta per evitare che un certo tipo di posizionamento si cristallizzi nella mente del consumatore prospect.

Se nelle strategie di marketing online questo metodo può avere un senso quando si provano dei vari messaggi tutti legati ad un posizionamento già esistente e solido, è un errore gravissimo utilizzare questa pratica per definire il proprio posizionamento di offerta quando ancora completamente inesistente, specie se il finto messaggio si affianca ad un brand che esiste: proprio nel 2018 un’azienda startup del fintech mi ha contattato per una strategia di pivoting dove il punto di partenza non era il posizionamento precedente, ma una pluralità di finti posizionamenti di offerta talmente utilizzati ai fini della strategia di lead generation che avevano creato un’idea disgregata e un’aspettativa del tutto errata nel target di quello che era il prodotto che, confondendo quel target che infine era stato era stato dall’azienda riconosciuto come ‘quello strategico’. Voi direte: almeno hanno capito qual era il loro target. Sorpresa, dall’analisi è affiorato un enorme errore alla base delle considerazioni che hanno indotto l’azienda a decidersi per un target di riferimento (certo, questa assunzione, almeno, li ha fermati! L’errore in quel caso consisteva nel aver proposto con una frequenza da record posizionamenti sempre diversi da non aver reso accessibile il messaggio a gran parte del target e da non aver lasciato il tempo di metabolizzarne neanche uno, creando una percezione esterna estremamente confusa, in nome di un presunto risparmio di risorse generato dal procedere per tentativi).

Il fatto è che, fare trappole e rimanerci incastrati per primi, è forse peggio di non muoversi affatto, perché comporta il sostenere direttamente o indirettamente dei costi e una sostanziale distrazione di risorse dal business.

Oltre alla distorsione introdotta dal provare strategie e messaggi a caso senza interrogarsi attraverso un giusto percorso sui valori del cliente finale, altri comportamenti non sono affatto lean:

  • Farsi guidare dalla fretta per risparmiare ad ogni costo, risorse, tempo, concentrazione, impegno (tagliare processi a caso non ti rende lean).
  • Abbattere presunti sprechi e strutture considerate inutili senza aver provato che questi siano effettivamente tali, ma solo in base ad una presunzione personale che sembra “lampante”. Questo non è lean, è semmai liberarsi di asset e di potenziali fonti di valore.
  • Muoversi senza struttura o punti di riferimento per essere leggeri: non avere processi o avere policies scarne non significa essere snelli, significa semmai mancanza di governance.
  • Infrangere le regole baipassare i principi di scienze che spiegano da sempre il comportamento di aziende e consumatori (dal marketing alle scienze comportamentali e cognitive, ai princìpi dell’economia industriale, alla sociologia dei consumi, e molte altre discipline ancora che in qualche modo influenzano il metodo lean) cercando di essere disruptive dove è controproducente, non è lean, ma è banalizzazione e mancanza di approfondimento sul metodo e scarso contatto con la realtà del mercato.
  • Introdurre il metodo in azienda superficialmente introducendo alcune pratiche senza aver piegato il percorso al team, considerato i processi, la stratificazione del team e gli scambi che avventono nello stesso non è lean, è superficialità e avere fretta di dimostrare all’interno e all’esterno un cambiamento non ancora veramente metabolizzato, e quindi non ancora in grado di portare valore.
  • Estremizzare: il risparmio, l’ordine, il coinvolgimento del team, i metodi alternativi, le analisi, la tensione al continuo miglioramento, il controllo dei tempi, il turnover di personale,.. non è decisamente lean.

Infine, due considerazioni sul ruolo vitale della comunicazione nel lean management e nel lean thinking:

prima di tutto, il coinvolgimento della tua azienda in un percorso così profondo richiede una spiegazione chiara e comprensibile degli obiettivi a tutti i livelli di management, non solo per evitare distorsioni e cattive interpretazioni, come sopra, ma anche per motivare il team a fare uno sforzo di comprensione e accoglimento del metodo e dei nuovi tasks che integrarlo al fianco delle normali funzioni aziendali comporterà.

In secondo luogo, la comunicazione è driver di empowerment: un ciclo di comunicazione dove le informazioni risultino accessibili, condivise e uguali per tutti è fondamentale per il top management avere fiducia a che ogni membro del teame . funzione aziendale trovi il proprio posto contribuendo secondo le proprie inclinazioni e skills al raggiungimento degli obiettivi di questo grande disegno che delinea il futuro dell’impresa e delle persone che la rendono competitiva ogni giorno. Questo non vuol dire che le persone fanno ciò che credono sia traduzione della filosofia, bensí significa che ognuno dovrà sapere cosa ci si aspetta da lui e come sarà  valutato e allo stesso tempo la persona dovrà essere messa nelle condizioni di perseguire gli obiettivi secondo le proprie capacità e nel rispetto delle policies e della filosofia aziendale.

Infine, la velocità della comunicazione top down riguardante l’adozione del metodo ad ogni livello, insieme alla velocità con cui si sviluppa a tutti i livelli committment ed engagement nel team, sarebbe secondo alcune ricerca fondamentale a garantire una transizione corretta e sostenibile verso l’implementazione della leanness, che si realizza con maggiori probabilità di successo nell’impresa che mette effort nella ricerca di miglioramento continuo.