Pinkwashing cosa?
Credi di non sapere cosa sia il pinkwashing, ma è troppo comune perché tu non l’abbia mai incontrato. Vediamo: la tua azienda sta organizzando un’iniziativa di welfare aziendale rivolta ai dipendenti che farà parte di una campagna di comunicazione istituzionale di grande visibilità. Con questa iniziativa la tua azienda si farà traino nel suo settore di un nuovo modo di concepire i diritti genitoriali, il concetto di emancipazione femminile in rapporto al work life balance e racconterà come il suo personale, indipendentemente dal genere, goda di particolari agevolazioni volte a permettere un empowerment in ambito lavorativo e allo stesso tempo maggiore serenità nella gestione dell’impegno lavoro-famiglia.
Bello bello.. sulla carta… Poi per realizzare questa iniziativa che richiede grande effort, però, la scorsa settimana sono stati negati allo staff intero i permessi familiari e il team ha lavorato ben oltre le 40 ore settimanali senza vedersi riconosciuti gli straordinari. Hai dovuto fare un lavoro che non è nelle tue mansioni per tamponare l’assenza del capo e facendolo hai scoperto che l’operazione non ha un’origine genuina, ma è stata messa sul tavolo del management a seguito di una crisi di comunicazione originata da una vertenza sindacale attivata da una giovane neo mamma che non ha visto rinnovarsi il suo contratto a progetto,…Però la prossima settimana potrai “sentirti ascoltata” perché il management ha organizzato un incontro con una motivatrice agguerrita che verrà a raccontarti che il primo step per emanciparsi nel lavoro e nella vita è “credere in se stesse”.
Ecco,…mentre la sincerity dell’azienda per cui lavori precipita a zero, tu hai appena scoperto cosa significa essere l’ingranaggio inconsapevole e impotente di una manovra di pinkwashing architettata ad arte da qualcuno che l’emancipazione femminile e i diritti civili non sanno neanche cosa siano.
Piccola nota di disambiguazione: il termine pinkwashing è usato anche nella comunità LGBT per descrivere tattiche di marketing che hanno lo scopo di promuovere un prodotto, un servizio o la reputazione di un’Organizzazione rappresentandosi attraverso un atteggiamento gay-friendly (specialmente attraverso la politica, le manifestazioni, gli eventi e tutto quello che puoò contenere un tono di comunicazione advocate). In questi casi il termine pinkwashing diventa, in modo più appropriato, rainbow washing. Sono spesso portatrici di rainbow washing le aziende che partecipano alle gay parade quando poi non fanno nulla per il resto dell’anno per sostenere i diritti LGBT.
Ancora di più si parla di pink washing quando l’operazione tattica di marketing è architettata come un mezzo di distrazione di massa o dell’opinione pubblica in merito ad un grosso punto debole di chi l’attiva: del resto chi fa questo tipo di marketing sa bene che si confronta con un mondo in cui frasi superficiali sulla femminilità, sulle pari opportunità (o appunto sui diritti LGBT) sono ancora in grado di smuovere l’attenzione globale e di scandalizzare l’audience.. per un’ora prima del prossimo gossip..ma dove è difficile e molto impegnativo capire come far seguire ad un certo scalpore un’azione che crei della tangibile e genuina innovazione sociale, scardinando vecchi paradigmi sociali.
Il “lavaggio rosa”, prolifera ben oltre le etichette dei prodotti, sfugge al perimetro delle adv pubblicitarie e delle affissioni cittadine e sa essere spudoratamente multicanale almeno quanto lo sono tutte quelle comunicazioni che fanno leva sulla “semplicità delle strutture cognitive” e sulla mediocrità della maggior parte dei consumatori di prodotti di comunicazione. Lo incontri in palestra, in ufficio, nella tua rivista preferita (femminile!), sullo scaffale del supermercato, all’ufficio di collocamento, nel tuo regalo di anniversario, nella pubblicità del detersivo, nel quiz televisivo e nella instagram story della tua influencer del cuore. Tocca tutto e tutti spudoratamente, tranne naturalmente, proprio i punti nevralgici su cui sarebbe davvero utile intervenire.
D’altra parte è troppo forte la tentazione di dichiararsi “rosa” in questo momento storico di forte attrazione del mondo verso le aziende che dimostrano di tenere non solo al proprio interesse economico ma anche all’impatto sul mondo in termini di ricaduta e trasformazione sociale.
Chi lo fa inganna i consumatori, rende complici i propri stakeholders e co-branded inconsapevoli, danneggia il dibattito pubblico distraendolo da questioni centrali di giustizia sociale e ritardando il progresso sociale e dà un cattivo “esempio di successo” che sarà seguito agli altri attori del mercato senza scrupoli (dando evidenza di come nel breve periodo, grazie alla scarsa consapevolezza delle audience, il mercato premia i pink washer).
Come fa quindi un’impresa che davvero vuole produrre innovazione sociale per obiettivi come l’emancipazione femminile a comunicarlo correttamente?
- facendo dei valori un driver di processi, prima che un driver di strategie di comunicazione
- creandosi una insiderness su questi temi e sui punti nevralgici su cui è necessario intervenire e su cui, pur con piccoli passi, potrebbe iniziare ad operare per portare la differenza
- comunicando il suo posizionamento su questi temi a partire dalle cose pratiche che sta facendo: meno adv e più racconto di come ha modificato la propria quotidianità aziendale e quella delle proprie persone
- utilizzando micro influencer e ambassador interni a testimonianza di quanto realmente avviene in azienda o di quanto una determinata iniziativa sia concepita davvero per produrre impatto oltre agli obiettivi di visibilità
- investendo sulla consapevolezza del consumatore nel discernere tra iniziative di valore e non e aiutandolo con l’educazione e la produzione di informazioni accessibili a comprendere meglio temi di innovazione sociale con cui non ha confidenza
- facendo leva sulle esperienze comuni in cui ciascuno si può riconoscere per identificare punti nevralgici del tema
- con un corretto product design, ovvero rendendo parte della propria offerta delle soluzioni che contribuiscano davvero a sostenere l’innovazione sociale
- rendendo i valori che l’azienda professa e applica nelle proprie scelte parte del patrimonio informativo del prodotto/servizio che offre, nonché elemento centrale della comunicazione di brand. E, infine, aiutando i partner di progetto a capire come, nella pratica e con iniziative concrete, si può uscire dal paradigma della “tolleranza” o “accettazione” e sperimentare (testimoniandolo) la ricchezza umana ed economica cosí direttamente connessa alla presenza di politiche aziendali che sostengono realmente la diversity.