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Hate speech e brand-hate. Cosa danneggia davvero l'impresa?


Leoni da tastiera nascosti dietro uno schermo, identità fittizie, fake reviews, haters scatenati sulle piattaforme di peer to peer recommendation, ma anche stakeholder infedeli e a volte fonti molto autorevoli vessano i brand spesso molto più di quanto possano fare pratiche illecite di mercato e la contraffazione (che nonostante sia da bandire e punire, esiste anche perché i prodotti del brand sono ambiti e la marca ha saputo creare “il sogno” nella testa del consumatore).

L’hate speech è quel tipo di incitamento all’odio che in molti casi ha scopi discriminatori. Non ne sono vittima solo le persone, ma è originato soprattutto da singoli.

Parlando di web: le persone incapaci di avere un rapporto sano con la tastiera non sono tutte uguali: se i troll e i flamer (definizione molto anni ‘90) sono persone che seminano zizzania conoscendo perfettamente i meccanismi delle conversazioni in rete, gli haters sono persone che rendono visibile attraverso l’utilizzo della rete un proprio limite di tipo comportamentale-espressivo o che esprimono disagio in modo scoordinato e impetuoso, non essendo in grado di confrontarsi adeguatamente ed esprimersi in modo pacato (per vari motivi, che non rappresentano una giustificazione, ma che possono fare di ognuno di noi un po’ un hater in un determinato momento).

Non tutti i brand prendono in mano la situazione difendendosi. E’ un errore strategico, più che altro perché il mancato governo di questa forma pubblica di dissenso é una rappresentazione visibile agli stakeholders delle lacune che ha il brand stesso nel controllo della brand reputation e dell’immagine aziendale: se l’azienda non sa difendere la propria reputazione, mette a rischio la brand equity, parte importantissima del patrimonio di marca che ne determina il valore sul mercato.

L’hate speech sui brand ha anche un danno collaterale molto importante: imprese che non si sentono pronte a governare eventuali interventi di contrasto all’hate speech, rifiutano categoricamente l’idea di portare la propria identità reale sui social, rinunciando a opportunità di visibilità, crescita e business.

Navigando in rete si nota quanto sono diverse le reazioni che alcuni atteggiamenti possono suscitare:

alcuni brand non hanno grande familiarità con i social network e, non facendo un’accurata operazione di ascolto delle conversazioni (social media monitoring o listening) finiscono per non accorgersi neppure del pericolo.

Altri invece sono molto vigili, tuttavia non hanno policies, protocolli interni ed esperienza tali da decidere come gestire la loro presenza soprattutto sui social, non sono avvezzi alla netiquette e finiscono per non rispondere ai commenti negativi, lasciando cadere (e sedimentarsi) alcune provocazioni.

Altri reagiscono spot agli attacchi più duri, cercando di mantenere l’aplomb e di non allontanarsi dallo stile comunicativo del brand, privilegiando la coerenza e.. diremmo anche..affidandosi al buon senso comune, che però non é davvero un attributo comune..altrimenti gli haters non esisterebbero.

Ci sono poi le contro offensive fatte di messaggi passivo-aggressivi, che dimostrano quanto l’organizzazione abbia subito il colpo e sia in cerca di approvazione e solidarietà, ma quanto tuttavia non voglia fare apertamente riferimento al carnefice (facendo “la spia”).

Una ulteriore categoria, minoritaria, non tollera attacchi né provocazioni, difende con veemenza la propria reputazione senza risparmiare colpi e costi, talvolta anche sfoggiando l’artiglieria pesante con troppa facilità.

Il punto è che il dissenso, che è sempre esistito e la cui espressione non può essere evidentemente contenuta integralmente, tramite i social media e le review trova la sua valvola di sfogo e una certa visibilità, portando alla luce un disagio che esiste da sempre e che oggi ha solo dei canali in più per essere espresso in maniera meno responsabile, canali che garantiscono all’hater di “esibirsi” anche celandosi nell’anonimato.

E’ vero, le imprese sono molto attente a non dare il LA attraverso messaggi provocatori, incitatori, fraintendibili, poco pensati, basati su fonti dubbie o non verificate, tuttavia lo scivolone è dietro l’angolo e l’hater sa essere gratuito (otre ad avere un tempismo da vero guastafeste professionista). Quando però questo succede ci sono due strade per uscirne:

La prima, se l’atto subìto è pubblico, ripetuto e molto evidente, consiste nel trarre dall’argomentazione una opportunità per fare emergere un proprio valore, rispondendo con fatti virtuosi e non per forza direttamente all’hater nella sede del misfatto (in alcuni casi, anche meglio rispondere nel mondo reale, sottraendosi alle dinamiche di quello virtuale). Se l’hater è affezionato infatti, potrebbe cercare materiale su cui appiccare il proprio incendio, meglio non fornirglielo e piuttosto “accerchiarlo” di dissenso e discredito. La questione in questo caso è fare a monte una valutazione del possibile danno di reputazione prodotto per capire se una rivalsa ha davvero senso o metterebbe ancora più in luce l’offesa, magari lasciando adito alla percezione di essere stati toccati su un nervo scoperto.

La seconda, se l’atto è una scarica occasionale d’odio, è abbandonare l’hater ai propri limiti, in quanto probabilmente lui non ribatterebbe mai, bensí vuole solo scaricare le proprie ansie. Se il commento è particolarmente sgradevole semmai segnalandolo alla piattaforma.

In tutti i casi, mai cancellare un commento, piuttosto irrigidire le policies sul linguaggio e toni delle conversazioni ammesse sui canali aziendali.

L’altra cosa che serve in tutti i casi, indipendentemente che il misfatto sia già avvenuto, è attivare un processo di monitoraggio e controllo dei rumors in rete, evitando che alcune supposizioni o idee di singoli si radicalizzino nell’opinione che il pubblico ha del brand. Il listening del ruomors di per sé è anche un’ottima strada per studiare mosse anticipate per contenere ambiti di vulnerabilità della marca.

Un dato è che, per dotarsi di competenze, mindset adeguato, personale specializzato o consulenze su come rendere l’approccio alle vulnerabilità una parte integrante dei processi di comunicazione aziendale, le aziende hanno spesso bisogno di investimenti mirati: difendersi, dunque, ha un suo costo.

Infine, un hater incapace di esprimersi con modo corretto e con termini adeguati, pregiudica dall’origine la sua tesi agli occhi del resto della community, perché appare come una fonte poco affidabile (la forma errata pregiudica la credibilità anche della sostanza più sensata).

Dal punto di vista della perdita di credibilità e di affari, invece, é estremamente più grave una diffamazione meno visibile diffusa nel mondo reale da uno stakeholder vicino all’azienda, che potrebbe essere creduto in quanto considerato ” fonte vicina” e che può rafforzare le sue false indiscrezioni con elementi ampiamente verificabili, che danno l’impressione che tutto il racconto sia vero.

Questo tipo di fenomeno, insieme al boicottaggio vero e proprio orchestrato da un competitor, alla contro informazione organizzata e agli attacchi diretti al brand o ai suoi rappresentanti, sono classificabili come brand-hate, colpiscono molto più profondamente la solidità della reputazione e la percezione di clienti e stakeholders aziendale e danno luogo ad una vera e propria crisi di comunicazione in grado di creare danni economici e di immagine.

L’hate speech può quindi essere, anche una manifestazione estrema di una dinamica trascurata di brand-hate, dove l’hater tuttavia ha più opportunità di essere creduto e seguito nelle fasi precedenti all’hate speech, quando cerca di diffondere contro informazione rispetto alla comunicazione del brand o di screditarlo, quando convince altri utenti a soffermarsi su una tematica o ad aderire ad una contestazione, quando chiede spiegazioni al brand e non ne riceve in cambio (esattamente la fasi un cui il brand vittima è più vulnerabile). E tuttavia è proprio con l’hate speech e l’espressione di un certo grado di aggressività che, l’hater impegnato in una campagna di diffamazione, perde completamente il contatto con il suo obiettivo e con la parte più raffinata della sua audience.