Il pericolo della distorsione nella raccolta dati

I dati, oro nero delle imprese digitali e non, utili per prevedere, prevenire e pianificare. Ma dietro essi esiste un pericolo da non sottovalutare, le distorsioni in fase di raccolta e analisi. 

Le distorsioni o bias sono modifiche intenzionali o non intenzionali della creazione, della conduzione, dell’analisi o della valutazione dei dati durante una ricerca. Le distorsioni hanno come effetto l’alterazione del risultato della ricerca e quindi l’inattendibilità dei dati trovati. 

Spesso si crede che le distorsioni avvengano soprattutto durante la fase di analisi dei dati raccolti, in quanto parrebbe semplice mal interpretare alcuni risultati.

In realtà le ricerche ci dicono che la maggior parte delle distorsioni avviene nelle prime fasi della ricerca, in particolare nella definizione dei questionari e nella scelta del o dei target. 

Questo avviene perché il ricercatore tende sempre a confutare la sua ipotesi e quindi può succedere che involontariamente induca la risposta che coincide con le sue aspettative nel soggetto intervistato. 

Un esempio facile potrebbe essere connotare una domanda in maniera tale per cui il soggetto si senta obbligato a rispondere con la variabile più plausibile.

Un esempio banale potrebbe essere se in un’indagine in cui si va a ricercare la percezione che le persone hanno della pericolosità degli animali e alla domanda “secondo te quale tra i seguenti animali è il più pericoloso? A. cane, B. gatto, C. orso.

Chiaramente le persone sono indotte a rispondere la lettera C ma questo non ci chiarifica nulla sul tipo di percezione che hanno rispetto alla pericolosità dell’animale stesso. 

Per evitare ciò è sempre buona norma costruire indagini che abbiano una struttura e uno stile imparziali, magari stese a più mani, in modo che il pericolo di distorsione si riduca notevolmente. 

Questo ci porta ovviamente anche a parlare di credibilità.

Se il ricercatore o l’analista induce la risposta nel proprio target, chiaramente l’analisi stessa e i risultati ne perdono in credibilità a priori, prima ancora di definirne i risultati. 

Il secondo errore più comunemente commesso è la definizione di un target sbagliato. Chiaramente il gruppo definito per la ricerca deve avere delle caratteristiche chiare che rispondano alle necessità di ricerca.

Se il campione non è rappresentativo allora tutta la ricerca sarà poco attendibile, compresi i dati raccolti. 

Per questo è bene non prediligere taluni gruppi rispetto ad altri, oppure escludere a prescindere alcuni gruppi per questioni logistiche.

Se ad esempio si sta effettuando un’indagine sui trasporti pubblici, è bene indagare l’opinione non solo degli utilizzatori, ma anche di coloro che scelgono un’altra tipologia di trasporto, per capirne le motivazioni. Escluderli dall’indagine creerebbe distorsioni. 

Ovviamente l’interpretazione scorretta dei dati porta a una distorsione, bisogna sempre ricordare che qualsiasi dato, sia esso legato a un’azienda o a uno specifico prodotto, necessita di una contestualizzazione che deve essere necessariamente inserita nella ricerca.

Il singolo dato di per sé vale poco, ma se inserito in una moltitudine crea la mappa che ci permette di prendere le decisioni in maniera agile. 

Anche il periodo di tempo tra cui scegliere i dati è importante.

Se ad esempio si effettua una ricerca su un indice di borsa è importante includere per capirne l’andamento, anche le aziende che ne hanno fatto parte in passato e che magari non ne fanno più parte, questo perché ci permette di ricostruire il passato e di avere un’idea più chiara di ciò che potrebbe essere l’andamento futuro. 

Infine, è sempre bene ricordare che l’opinione delle persone è facilmente influenzabile, da chi hanno accanto, dai contesti, persino dai luoghi.

Per questo è bene formulare domande precise e raccogliere più dati possibili in fase di ricerca optando sempre per interviste sia interne che esterne all’organizzazione. 

Solo così è possibile evitare errori ed ottenere risultati chiari che ci aiutino a prendere le decisioni. 

Se vuoi conoscere di più rispetto ai temi di costruzione del brand e dei suoi valori c’è Da Zero Al Brand di Daniela Bavuso e Natale Cardone. 

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Tutti parlano di dati, ma il Data Collecting?

I dati sono una risorsa fondamentale nella contemporaneità. Vengono utilizzati soprattutto per prendere decisioni nei campi del business, delle organizzazioni e dei governi, e aiutano ad analizzare meglio il mondo che ci circonda. 

Tutti parlano di dati e di come essi siano fondamentali per costruire le strategie di brand. Altrettanto importante però è il data collecting, perché il processo di  raccolta dei dati è la base su cui si costruisce tutta la ricerca. Deve quindi necessariamente essere adeguato

Innanzitutto è bene distinguere tra indagine qualitativa ed indagine quantitativa. Spesso è opinione comune che i dati quantitativi siano più importanti di quelli qualitativi, ma non sempre questa è una verità. 

Tutto dipende da quali obiettivi di ricerca si vogliono raggiungere. Se per noi è importante conoscere il percepito del brand, quindi i bisogni, i desideri e le attese dei consumatori, allora un’indagine qualitativa assume una rilevanza maggiore.

L’individuazione del target a cui sottoporre la ricerca è fondamentale. 

Un target sbagliato ci porterà dati sbagliati e distorti, che non ci aiuteranno nella nostra indagine. 

Una volta definita la Brand Equity attraverso le interviste qualitative è importante conoscere anche i dati quantitativi, tangibili e intangibili. 

Ma cosa significa?

Una buona ricerca non si può solo basare su caratteristiche visibili, ma deve anche indagare ad esempio quanto un consumatore (o un prospect) si senta o meno vicino al brand, quanto quest’ultimo sia moderno, se viene percepito come premium.

Riuscire a diversificare bene le domande e gli argomenti delle interviste ci aiuta, insieme ad identificare il giusto target, ad evitare, o meglio a limitare, le distorsioni. Queste ultime avrebbero come effetto la costruzione di una strategia fallace e quindi il non raggiungimento degli obiettivi di brand. 

Il passato e l’heritage del brand rappresentano una risorsa da non sottovalutare in fase di assessment. Il passato è il punto di partenza su cui costruire il futuro, sia che esso sia in continuità che in discontinuità. L’heritage è il legame con il mercato, e per questo condiziona inevitabilmente il percepito del valore del brand. 

Durante la fase di data collecting è bene esplorare tutte le fonti, sia online che offline. Oggigiorno, ad esempio, se vogliamo valutare la percezione che le persone hanno di un brand, non possiamo dimenticare di raccogliere il sentiment presente nei commenti sui social media. 

Infine è bene ricordare che i dati vanno contestualizzati. Essi infatti inseriti in un contesto assumono un preciso significato e si trasformano in informazioni. Le informazioni a loro volta, connesse una all’altra, ci danno conoscenze. I frame sono invece tutte le possibili interpretazioni delle conoscenze. 

Interpretazioni su cui poi andrà costruita la strategia di brand. 

Se vuoi saperne di più sui dati e sul data collecting per la strategia di brand Da Zero Al Brand di Daniela Bavuso e Natale Cardone è il libro per te. 

Fenomenologia del podcast

In origine era la radio: informazione, attualitá, musica, parole sparse e adv in un flusso continuo capace di tenere compagnia a quasi ogni tipo di ascoltatore in cerca di intrattenimento. Produzioni costose, pubbliche e poi sempre più indipendenti, frequenze comunque limitate, speaker e personaggi noti al centro, bon ton tematico e un graduale ritorno  nei ranghi che nei decenni ha soppiantato l’entusiasmo delle radio libere locali che trasudavano voglia di emancipazione nel ’76 e che hanno portato le vibrazioni internazionali nelle case di provincia italiane.

Come le scelte imprenditoriali descrivono competitività, paure e reale capacità di innovare

Ho scritto questo articolo per spiegarti come l’azienda comunica il proprio livello di competitività e fa percepire all’esterno forza innovativa, solidità e timori  solo attraverso le scelte imprenditoriali, ancora prima che inizi a fare comunicazione strutturata. Anche il fine tuning della comunicazione può supportare o sbilanciare un processo di crescita della competitività attivando dinamiche del mercato più o meno desiderabili per un’azienda in posizione challenging o per una startup che non ha ancora visualizzato bene gli incumbent sul mercato.

Affrontare il mercato e le relazioni con le altre organizzazioni ci conferisce oggi un forte spirito di osservazione e approfondisce la conoscenza che ogni azienda ha di tutte le organizzazioni che le circondano, permettendo di cogliere delle informazioni e avere percezioni che arrivano all’esterno, spesso molto prima di quei messaggi di comunicazione che diffondiamo tramite un piano di comunicazione strategica strutturato.

Nel proprio lavoro lo strategist di comunicazione impara a rilevare il posizionamento di un’azienda non a partire da quanto i membri dell’Organizzazione dichiarano di essere o voler far, ma dalle reali scelte aziendali, che si riflettono:

Trova i micro-influencers online e offline e gestiscili, in pratica

La scorsa settimana ti ho raccontato come nel mio lavoro quotidiano vedo crescere il ruolo dei micro-influencers e la compatibilità con gli obiettivi comunicativi di aziende di ogni dimensione, comprese startup e pmi.

Ti sarai chiesto però, una volta tenuto conto delle indicazioni generali su quelle che devono essere le caratteristiche desiderabili di un influencer che collabora con la tua impresa, come si fa nella pratica a distinguerli dalla massa, proporre una collaborazione, gestirli.  Ma la prima domanda che ti sarai fatto è: dove si va a cercarli?

Primo punto: quello che cerchi, non è detto si trovi già nella tua orbita (leggere: followers, relazioni personali e professionali online e offline, stakeholder). Certo è che una prima valutazione sui profili presenti nel tuo network attuale non puoi trascurarla.

Le geometrie di una strategia di comunicazione migliorabile

Una delle tentazioni per eccellenza di chi si occupa di strategia di comunicazione è quello di partire dalla richiesta del cliente pensando a come accontentarlo, anche laddove alla richiesta sottendono informazioni che dovrebbero essere provate o che non tengono in considerazione che la comunicazione strategica funziona bene se integra correttamente diversi elementi.

Uno strategist non offre soluzioni preconfezionate ma percorsi per imparare ad orientarsi in maniera quasi autonoma tra le scelte e le opportunità che ad al cliente si possono presentare nei mesi e negli anni successivi. Per questo motivo l’applicazione di una strategia di comunicazione dovrebbe sempre avere un rapporto chiaro e indissolubile con l’attività di change management, che è quella che supporta l’introduzione di novità (culturali, tecnologiche, di processo) all’interno di un’organizzazione, come dire: inutile avere uno strategist guru se non si impara l’autonomia o non si assorbe la visione strategica in modo corretto e univoco.

Alle volte però il rapporto con il cliente non lascia via di scampo, lui oggi vuole un preventivo per la content strategy su LinkedIn e tu sai già che qualunque cosa gli offrirai senza tentare di analizzare le sue necessità nella loro globalità sarà qualcosa che nel percorso di collaborazione porterà problemi ad entrambi.